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Per Tiziano Terzani si dovrebbe sempre arrivare ad Hiroshima dall’alto su un aereo come fece il colonello Tibets, al comando di quel B-29 chiamato come sua madre, Enola Gay poco istanti prima di lanciare la bomba atomica.

Per me a Tokyo, se fosse possibile, si dovrebbe sempre arrivare direttamente da sotto la metropolitana.

La metropolitana di Tokyo, il cuore di una città.
La metropolitana di Tokyo, la più utilizzata al mondo.
13 linee per 274 stazioni che trasportano, ogni giorno oltre 8 milioni di passeggeri.
Il primo sistema al mondo in termini di passeggeri trasportati. Che poi la metropolitana di Tokyo in senso stretto rappresenta solo una piccola parte di tutti gli spostamenti della Grande Tokyo, che si attestano a circa 40 milioni di transiti al giorno.

Un mondo. Un vero e proprio mondo sotterraneo ma anche un sistema circolatorio sotto pelle, un sistema circolatorio profondo per osservare i giapponesi per quello che sono dentro, andare oltre i binari omologati e omologanti delle loro abitudini, convenzioni, traiettorie e superare il loro dolce e asfissiante distacco nei confronti della realtà imposta dalla società degli altri; oltre il sistema degli obblighi e delle aspettative.
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La metropolitana di Tokyo, il cuore di una città.
La metropolitana di Tokyo e i giapponesi.
Apparentemente sono lì davanti a te, quasi tutti con gli occhi sul palmare. Qualcuno con il cellulare spento per rispetto degli anziani in prossimità dei posti a loro riservati; qualcuno leggendo manga di vario tipo tra cui gli hentai, manga erotici; qualcuno impegnato in palpeggiamenti, tanto che ci sono metro giapponesi riservate solo alle donne terrorizzate da questo pericolo; tutti pigiati come scatole, accompagnati ad entrare e trovare il proprio posto dai “buttadentro”, una stazione dopo l’altra.
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“Butta-dentro”, come dentro una discarica sociale.
E anche la società giapponese in effetti, forse “butta dentro” il sistema costituito, dalla nascita ogni suo figlio senza accettare eccezioni e dissidenze.

Ed è lì che una sera mi viene in mente la prima cosa da non fare in Giappone:

1. Non guardare mai negli occhi di un Sararīman e Sararīeyes, un semplice impiegato giapponese che torna a casa dopo un’infinita giornata di lavoro.

In una scatola di biscotti giapponesi, (e una scatola di biscotti giapponesi non è mai una scatola ma quasi uno scrigno high tech che quasi non viene voglia di aprire nè di toccare), troverete sempre incartato ogni singolo biscotto,
ogni singolo biscotto chiuso in un involucro di plastica,
ogni singolo biscotto cotto,
confezionato
e staccato dai suoi simili per espletare la sua funzione sociale: essere mangiato!

Così i Sararīman, i samurai del capitalismo giapponese: fedeltà, disciplina, abnegazione, creatività, volontà, autocontrollo, gesti, gusti, pensieri, tempo, tempo condiviso, tempo controllato, tempo libero, tutta una vita, donata allo Shogun aziendale.
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La sua musica interiore è il jingle che si sente uscire dagli altoparlanti di ogni singola fermata della metropolitana di Tokyo e del resto del Giappone. Motivetti, tutto uguali e tutti diversi, un microgenere musicale che si chiama HATSUMELO, si scarica dal sito www.hatsumelo.com e si ascolta sul canale dedicato di You Tube.

Il suo completo, o Kamishimo è l’abito grigio e la cravatta, la sua katana è la valigetta. Le cinque pieghe frontali rappresentano la via dei cinque principi:
lealtà e fedeltà verso il denaro signore,
pietà filiale e cortesia verso il figlio o il genitore,
armonia e intelletto verso la moglie,
affetto o compassione verso l’amore,
e poi fiducia e fede, molta fede, molta fede verso la vita concessa, dagli altri e dalla società.

Quelli di oggi, hanno più o meno la mia età. Alcuni sono più giovani, altri più vecchi. I più vecchi sono nati nell’epoca del DENKA BUMU, il boom degli elettrodomestici, dei tardi anni cinquanta.
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L’epoca dei tre mostri sacri – SANSHU NO JINGI, formula che nell’epoca imperiale indicava, lo specchio, la spada e i gioielli e in quegli anni viene sostituita da: frigorifero, lavatrice, aspirapolvere.

E poi otto anni più tardi nel 1966, dai nuovi tre mostri sacri “SHIN SANSHU NO JINGI”, le “3C”: Color TV, Cooler, Car: televisione a colori, condizionatore e macchina.

E via dicendo nuove creazioni, oggetti, schiavitù, computer, palmari, cessi tecnologici con bidè integrati al colon, cellulari ultima generazione, merci sempre più opprimenti e pressanti che i Sararīman contribuiscono a creare, diffondere, commerciare e per guadagnare soldi che gli consentano di ricomprare quegli oggetti, come parti di se stessi, come figli dati in adozione; come niente che crea il niente, vende il niente per ricomprare il niente.

Samurari salariati, mercificati e mercenari apparentemente normali e perfettamente allineati: 12-14 ore al giorno per 5 o 6 giorni a settimana. Dovrebbero essere 8, le altre sono di straordinario spesso non pagato. Licenziarsi o cambiare azienda NON è contemplato. Chi lascia il posto può essere poi scartato perché considerato inaffidabile, indegno di fiducia e avrà poi il terrore di dover ripartire dal gradino più basso del sistema gerarchico.

Non lavorano duro, o meglio anche questo ma soprattutto: lavorano rallentati.
RA-LLE-NNN-TA-TI…
La lentezza, la cura, è perfezione.
Bisogna essere lenti e accurati nel fare le cose e in ogni caso non si può mai andare via dall’ufficio prima del capo o dei superiori, perchè ciò è considerato un’offesa, egoismo e distacco.

Samurari salariati, mercificati e mercenari apparentemente normali e perfettamente allineati: 10 giorni di vacanza l’anno, mai malati e obbligati a “socializzare” con i colleghi.
Obiettivo: rompere legami affettivi privati, assicurando la fedeltà del sottoposto all’azienda.
E poi: feste! Feste! Feste! Feste chiamate nomihodai (飲み放題: tutto ciò che puoi bere).
In esse tutti devono ubriacarsi a comando.

E la maggior parte lì vedi in metropolitana a fine festa, completamente ubriachi, pietrificati sul pavimento come se da un momento all’altro si fossero spenti.
Bipedi,
umanoidi,
real robot,
non altro che cose appoggiate da qualche parte.

Qualche volta qualcuno alza la testa e ti capita di incrociare lo sguardo con loro e vedi quegli occhi di cose ancora vive,
occhi di vetro,
scuri e inespressivi.
Occhi di cose che sanno di essere cose,
in mezzo ad altre cose in una scatola di lamiera dentro un mondo di cose che forse ancora si ricordano di essere stato altro,
sperando di dimenticarlo presto.