Fu il sublime poeta Claudio Damiani (https://it.wikipedia.org/wiki/Claudio_Damiani) un giorno a consigliarmi di leggere Giuseppe Munforte (http://www.giuseppemunforte.com/): “dato che vivi a Milano, dovresti conoscere Giuseppe, eccellente scrittore che come pochi sa descrivere poeticamente Milano e le sue zone d’ombra”, disse.

Cominciai leggendo “Dove batte l’onda (Melville 2015) e poi andai a ritroso con “Nella casa di vetro” (Gaffi 2014, finalista premio strega), “La resurrezione di Van Gogh” (Barbera 2013) fino a arrivare all’ultimo “Il fruscio dell’erba selvaggia” (Neri Pozza 2018), opera di cui ebbi l’onore di fare la lettura teatrale di alcuni brani, in diverse presentazioni di Giuseppe.
Inoltrarmi tra le sue parole fu un mirabile viaggio, un camminare a piedi nudi lungo tangenziali, piazze e circonvallazioni che come mirini concentrici rivelano i significati più profondi di Milano e con essa dell’anima degli individui che nutrono con le loro esistenze la storia e la vita di questa città.
E fu chiaramente un immenso onore quando Giuseppe Munforte accettò di scrivere la seguente nota introduttiva al mio “Ti amo ma sono asintomatico”.
Buona lettura.

“Giulio Valentini ha scritto un piccolo canzoniere di amore metropolitano, sorprendente per la sua leggerezza e la sua grazia, fatto di esitazioni, tenerezza, meraviglia e anche dei sentimenti contrari che scatenano la passione, quando la relazione diventa burrasca. Il tempo dell’amore vive di impeti che sovvertono la normalità. L’amore è una macchina del tempo, fa saltare i cardini dell’ordinario e tornare bambini, in uno stato di purezza che non è fatto di quiete ma dello slancio e degli istinti che appartengono a una condizione ancora estranea al compromesso e all’abitudine. Un mondo in cui incanto e furia si danno il passo.
Sono poesie che iniziano da Finisterre, luogo estremo che in questo caso non viene raggiunto a partire dallo sgomento prodotto dall’inferno della guerra, come era stato per Montale, ma dall’inquietudine in cui si sprofonda quando un amore finisce. La condizione in cui d’improvviso ci si trova di fronte agli “occhi vitrei e alle “parole uncino” del disamore.
Immaginiamo l’autore che guarda dalle scogliere pensando alla sua amata e ai giorni con lei, dopo un lungo cammino fatto di silenzio. La poesia inizia da lì, la parola sorge da una distanza che è analoga a quella che, da innamorati, diventa religione, in un verso bellissimo, e restituisce la dimensione anche divina dell’amata.
L’amore è la magia della realtà il cui segreto, una volta perso, può essere inseguito solo nei versi, da una condizione di esilio, di lontananza che viene rimarcata dal numero delle poesie, quarantaquattro, come gli anni dell’esilio del Guernica di Picasso prima di tornare in Spagna. Si compone così una silloge dedicata a una persona, a una vicenda, ma che è, allo stesso tempo, anche una lunga riflessione sull’amore, con un’originale alternanza di registri: dall’ironico al lirico, dalla riflessione, alla dichiarazione, alla confessione, e così via.
Ho letto queste poesie la sera, prima di dormire, due o tre ogni sera, non di più, rientrando ogni volta nel loro mondo come in una narrazione. Mi hanno accompagnato nel sonno. Consiglio di farlo. Quel tempo prima del sonno allora si riempie di qualcosa che tutti abbiamo vissuto, quando abbiamo amato. Di quel dialogo, di quello stupore che, quando ripensiamo a quello che è stato, sentiamo rinascere anche come un’attesa”.
Giuseppe Munforte