Di e con Giulio Valentini – Musiche di Antonio Novaes – Durata 60 minuti
Faraj Bayrakdar scrittore siriano classe 1951 viene arrestato a partire dalla fine degli anni 70′ per ben tre volte. La prima volta per opera della Sicurezza Aeronautica, nel 1978, a causa della pubblicazione di una rivista letteraria insieme a giovani scrittori all’università di Damasco. La seconda per mano dei Servizi Segreti della Sicurezza di Stato, il giorno dopo essere stato rilasciato dalla Sicurezza Aeronautica, per la appartenenza al “Gruppo d’Azione Comunista”.
La terza “grazie” alla Sicurezza Militare, il 13 marzo 1987, sempre per la sua militanza politica.
Quattordici anni trascorsi fra la prigione militare di Saidnaya e il carcere del deserto di Palmira.
Quattordici anni scritti non con l’inchiostro ma con il sangue sacro con cui si scrivono le leggi della dittatura e la ferocia degli apparati di regime.
Quattordici anni e uno stormo colorato di parole che non trovano più il loro spazio nel passato e precipitano colme di abbracci per le vittime delle dittature del presente e del futuro.
Note di Regia
Un viaggio oltre la morte e ritorno stretti nell’abbraccio sottile della narrazione. La documentazione poetica di un rapporto con un’esperienza drammatica capace di donare immagini a vicende che non ne hanno.
Sono le immagine narrate a donare una loro etica alla narrazione. Le intenzioni come le immagine hanno dei codici propri che scaturiscono direttamente dalla scrittura e dal ricordo di un’esperienza drammatica: il teatro si piega a rappresentare proprio quelle “tappe e momenti di un viaggio cieco”.
Come si può descrivere un’esperienza di prigionia? Attraverso la poesia, la quale come una macchina da presa è sempre in spalla. Niente altro.
Fuori, nella superficie, gli spettatori vivevano nella finzione. Sul palco un sopravvissuto, osserva cercando di far vivere il silenzio che sostiene ogni singola parola. L’attore si cala in una situazione estranea, si muove in modo sequenziale, meccanico, concentrandosi sul qui e ora nella sua drammaticità. La domanda è: la violenza si può rappresentare? Sì, la violenza si può rappresentare quando non é solo soggettiva, quando diventa lucida esperienza attraverso cui svelare l’oggettività di un sistema strutturalmente violento e disumano come quello totalitario.
Nell’organizzazione di appuntamenti teatrali finalizzati a raccontare e denunciare la situazione siriana odierna, mi sono occupato di coordinare un gruppo di cittadini nella realizzazione dello spettacolo: “La Scintilla di Daraa”.
Liberamente tratto dal libro “Il Prigioniero numero 13” di Faraj Bayrakdar. La mia alienazione nelle prigioni dei Servizi Segreti siriani