La prima volta che sono entrato in un centro sociale avevo da poco conosciuto il sapore della nicotina. Indossavo un giubbetto di pelle nero made in mongolia e nella tasca posteriore dei pantaloni avevo un pacchetto “sogliolato” di Diana morbide blu.
Il FORTE PRENESTINO era in una di quelle zone di Roma che conoscevo solo perché era un pezzo di una pagina di “Tuttocittà” mezza strappata ai lati. Mi piacque subito perché c’era una specie di quel disordine creativo con il quale ero solito apparecchiare i pensieri dentro la mia testa. Ci si ama per affinità nella maggior parte dei casi.

Avevo 17 anni ed ero ripetente. Dopo qualche inverno mi iscrissi alla Sapienza, Facoltà di Lettere e Filosofia, indirizzo Storia Moderna e Contemporanea, direzione Storia dell’Europa Orientale. L’ufficio di Maria Clara Castelli e Attilio Chitarin era sul lato destro a metà del corridoio del dipartimento di Storia, secondo piano, a sinistra della biblioteca. Erano i tempi in cui Anubi era tornato ad essere una divinità. Un Dio magro e appuntito che non aveva più tanto a che fare con la mitologia egizia, che non era più nero ma rosso e che non decideva più la vita oltre la morte ma che si proponeva di attaccare la morte della cultura dentro l’università. Non ci sarebbe riuscito. Oggi non so che fine abbia fatto. Dicevano che era diventato il braccio destro di Bertinotti, quando Bertinotti era Bertinotti ma oggi Bertinotti è sparito e pure lui. Erano i tempi della mensa in via De Lollis, di Mani pulite, di “namo a beve una biggiozza a San Lorenzo?”, del libretto elettronico, delle file chilometriche in Segreteria “che poi chiude cinque minuti prima e devi ritornà e so cazzi amari” e poi…erano i tempi del primo VILLAGGIO GLOBALE!
Perché a quei tempi i centri sociali non erano solo dentro, erano pure fuori! Mica eravamo tutti comunisti al Villaggio Globale eppure ci venivano tutti e quando uscivi sentivi che quello che c’era dentro c’era pure fuori. Che certo i fascisti mica erano morti, ma noi… “NOI eravamo più forti e sempre de più!”

Il Villaggio Globale per come l’ho vissuto io è finito il 17 marzo del 2001: eravamo in 10.000 al concerto della Banda Bassotti. Tutti con la bandiera dei Paesi Baschi perché “certo er terrorismo è na merda però oh, FREEDOM FOR THE BASQUE COUNTRY e vaffanculo aaah Corrida e pure quella de Corrado!” Tutti a cantare e la voce arrivava dappertutto da Spinaceto a Prima Porta, dalla Boccea al Tufello. Quella sera Roma era nostra e il Villaggio Globale non era più il mattatoio del Testaccio ma la Piazza Rossa a due passi dal Vaticano.

Passa qualche mese e arrivo a Milano e se arrivi a Milano non puoi non andare alla “Festa del Raccolto” al LEONKAVALLO. Che poi il Leoncavallo non è più in via Leoncavallo è da un’altra parte: peccato perché quella parte avevo capito dov’era. Dice che adesso è in una via che si chiama come un pittore francese. E dov’è? “Vicino via Melchiorre Gioia. E dov’è? Vicino al Kaikan. Vicino a? Ehhh alla Stazione Centrale. E allora dimme subito a Stazione Centrale e non falla complicata…Guarda che non è alla Stazione Centrale. Va beh, ho capito, salimo in macchina famme vedè n’do sta!”

Il Leonka all’inizio era una cattedrale. Quando entravi dentro sentivi forte il brivido dalla santità pagana e pensavi: “Oh sono al Leonka mica cazzi!” Poi facevi un tiro di una canna e ti buttavi a ballare Reggae al barretto del parchetto sulla sinistra. Di concerti ne ho visti tanti al Leonka e per tanto tempo era forte là dentro il senso di partecipazione: eri nel centro di quello che c’era a Milano e a Milano c’è sempre tanto e quindi eri dove dovevi stare.
Passano gli anni e dentro quella sala gigante con il palco in fondo ogni 7 secondi scompare un corpo. Per come la vedo io oggi l’aurea non c’è più, il Leonkavallo è un centro sociale come un altro, è come uno che era bravo quando era bravo ma poi: un centro sociale deve produrre, pulsare, pulsare, pulsare sangue perché se si ferma, muore.

E poi è arrivato il BULK, che non era proprio bello ma piaceva. Che poi non si capisce perché i posti da comunisti devono essere necessariamente luridi e brutti, alla fine la creatività è bella e il Bulk non lo era tanto ma mi ero affezionato e quindi ci andavo spesso.

Come anche alla STECCA che invece era proprio un bel posto. L’Isola era la nuova frontiera e noi tutti lì a bere una birra e farci assemblare una bici perché vaffanculo le bici rubate al mercatino di Senigallia, noi siamo onesti e le bici le assembliamo! Ora c’è un grattacielo sopra alla Stecca ma noi non l’abbiamo dimenticata: anche i centri sociali hanno i loro martiri.

Passano gli anni e una sera vado al Cantiere, zona San Siro. Concerto dei 99Posse e quella sera ho una percezione. Tutto è cambiato. Noi ce la raccontiamo là dentro ma poi esco e fuori è tutta un’altra storia. Non è più come prima che quando uscivi sentivi che fuori era diverso ma noi siamo quelli giusti e un giorno o l’altro vieni pure tu e prendi coscienza, NOOO! Fuori è tutto COMPLETAMENTE diverso e noi ora siamo in una piccola riserva indiana che oggi c’è e domani chissà.

E allora mollo le riserve e cerco i centri sociali che ancora respirano e pompano sangue, respirano e pompano sangue, respirano e pompano sangue, che sono cuore e polmoni e che lottano e ne trovo due, in periferia. Uno nella nuova frontiera malata dell’Expo e l’altro vicino a un cimitero. Si chiamano il FORNACE e il TORCHIERA. Uno è stato da poco sgomberato da una parte e riokkupato dall’altra dalla notte alla mattina. L’altro è un oasi di resistenza, fervore, partecipazione e orgoglio. E’ da qui che spero si ricominci a Milano, perché i Centri Sociali non sono nati per essere riserve indiane ma cuori e polmoni che respirano e a volte s’incazzano.